
La richiesta di un'arte—e in particolare della musica—libera dalle logiche di mercato e al servizio esclusivo dell'"espressione intellettiva non finalizzata al rendimento" tocca il nervo scoperto di una contraddizione vecchia di secoli, oggi giunta al suo apice. Al centro di questa tensione risiede l'ambiguità semantica del termine "speculativo".Da un lato, l'arte come "aspetto speculativo" ha una connotazione filosofica e nobile. Gli scrittori di musica medievale, ad esempio, distinguevano nettamente tra i "teorici", dediti all'aspetto speculativo, e i "trattatisti", concentrati sull'aspetto pratico.1 In questa visione, che trae origine dalla concezione pitagorica e boeziana, la musica era una forma di conoscenza superiore, una speculazione intellettuale sull'armonia del cosmo (musica mundana) e dell'anima (musica humana).1 Era un'espressione intellettiva pura, il cui valore era intrinseco e teorico, non utilitaristico.Dall'altro lato, l'epoca contemporanea ha sottomesso l'arte a un "aspetto speculativo" di natura diametralmente opposta: la speculazione finanziaria. In questo paradigma, la musica e i suoi diritti ancillari sono stati ridotti ad asset class, oggetti di investimento la cui unica finalità è, precisamente, il "rendimento".2 Fondi d'investimento miliardari, come Hipgnosis Songs Fund, trattano i cataloghi musicali non come patrimonio culturale, ma come "pure play exposure to songs and music IP" (pura esposizione a canzoni e proprietà intellettuale musicale), progettati per generare flussi di cassa stabili e decorrelati dai mercati azionari.3Questo saggio critico argomenta che queste due accezioni dello "speculativo" non sono solo distinte, ma fondamentalmente antitetiche. Si dimostrerà come la logica di mercato, nella sua evoluzione dall'industria culturale all'attuale finanziarizzazione totale, non si limiti a "distribuire" l'arte, ma agisca come un parassita che colonizza e infine distrugge la possibilità stessa di quell'"espressione intellettiva" da cui originariamente traeva il suo stesso valore. Il mercato, per sua natura, non può tollerare un'arte "non finalizzata al rendimento", poiché la sua logica trasforma inevitabilmente la speculazione intellettuale in mera speculazione finanziaria.
L'ideale di un'arte libera dal mercato, al servizio della pura espressione intellettiva, non è un'utopia ingenua, ma una conquista storica e filosofica precisa. Il concetto di autonomia dell'arte, sintetizzato nello slogan "l'art pour l'art" (l'arte per l'arte), emerge in un momento storico specifico e come reazione a una specifica logica.5Se nel Settecento illuminista figure come Voltaire e Diderot—rappresentanti del Terzo Stato in lotta—vedevano l'arte come uno strumento di "propaganda politico-sociale" e miravano all'"utile sociale", i romantici e i loro successori (come Gautier o Flaubert) si trovarono di fronte a un nuovo avversario: la borghesia trionfante e la sua visione utilitaristica del mondo.5 "L'art pour l'art" divenne così lo slogan di una "snobistica irresponsabilità" 6 solo agli occhi di chi voleva sottomettere l'arte a una nuova forma di utilità, quella economica. In realtà, fu la rivendicazione di uno spazio—la "torre d'avorio" 6—in cui l'espressione potesse seguire leggi proprie, non quelle del profitto.La radice filosofica di questa autonomia risiede nell'estetica tedesca. Fu Alexander Baumgarten a definire l'estetica come la "perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale", identificandola con la bellezza.7 Ma è con Immanuel Kant che questa autonomia riceve la sua fondazione più solida. Nel Giudizio di Gusto, Kant definisce il bello come "la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione d'uno scopo".7Questa "finalità senza scopo" è la definizione filosofica esatta dell'ideale artistico richiesto. L'arte ha certamente una finalità, ma questa è intrinseca: è la coerenza interna dell'opera, l'esplorazione della forma, l'espressione intellettiva. Ciò che le è estranea è la finalità estrinseca: l'utile morale (come per Diderot) o, peggio, l'utile economico (come per il mercato capitalista). Un'opera d'arte "libera" è quella che risponde solo alla propria logica interna, non a un KPI (Key Performance Indicator) o a un potenziale "rendimento" finanziario.È questa promessa di autonomia—di uno spazio per la "conoscenza sensibile" pura—che la logica di mercato si è mossa sistematicamente a smantellare.
La diagnosi più lucida e spietata della sottomissione dell'arte alla logica capitalista rimane quella formulata da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, i principali esponenti della Scuola di Francoforte.8 Nel loro concetto di "industria culturale", essi non descrivono semplicemente un mercato dell'arte, ma un sistema totalizzante di produzione e controllo ideologico che perverte la funzione stessa dell'arte, trasformandola da strumento di emancipazione 8 a strumento di assoggettamento.L'analisi adorniana dell'industria culturale musicale, sebbene formulata prima dell'era digitale, ne ha identificato i meccanismi fondamentali con precisione profetica.10
Il meccanismo centrale dell'industria culturale è la standardizzazione. Per "evitare rischi" e massimizzare il profitto, il sistema impone la "dinamica del 'sempre uguale'".10 L'innovazione e l'originalità—nucleo della speculazione intellettuale—vengono escluse a priori perché rischiose. L'industria musicale, in particolare, propone "schemi familiari e non impegnativi intellettualmente".10Questa standardizzazione non è solo una questione di forma musicale; è, come sottolinea l'analisi della critica adorniana, un obiettivo sociologico.12 L'obiettivo non è tanto produrre canzoni standardizzate, quanto "creare reazioni standardizzate".12 Attraverso la propagazione di stimoli familiari, l'industria mira a una "progressiva omologazione della coscienza" 12, sacrificando l'individualità e la "stessa possibilità di scelta".12 Il risultato è un consumatore la cui capacità di "attività mentale o intellettuale" è letteralmente "vietata" dal prodotto culturale stesso.10
Adorno applica la teoria marxiana del feticismo della merce alla musica.13 In un mercato capitalista, il "valore di scambio" di un prodotto (il suo prezzo, il suo status) oscura il suo "valore d'uso" (la sua utilità concreta). Applicato alla musica, il "valore d'uso" è il suo contenuto estetico-intellettuale, l'esperienza dell'ascolto; il "valore di scambio" è la sua popolarità, il brand dell'artista, l'essere "la hit del momento".13Nell'industria culturale, sostiene Adorno, il valore di scambio sostituisce completamente il valore d'uso.13 La musica diventa un feticcio: un "prodotto uscito dalla mano dell'uomo, ugualmente alienato".14 L'ascoltatore non fruisce più della struttura interna di una sinfonia o della complessità di un'improvvisazione; piuttosto, consuma lo status della merce. Si gode non l'opera, ma il riconoscimento dell'opera. La musica non viene ascoltata per sé stessa, ma per ciò che rappresenta socialmente ed economicamente.
La conseguenza psicologica di questo sistema è la "regressione dell'ascolto".13 Bombardato da stimoli standardizzati e feticizzati, l'ascoltatore perde la capacità di un ascolto strutturale e attivo. L'ascolto diventa "regressivo" 16: un "modo d'ascolto" che "incatena il fruitore in una sorta di cantilena infantile ripetitiva".16In questo stato, l'unico piacere deriva dal "piacere del riconoscimento".16 L'ascoltatore, come paventava Einstein in un contesto diverso, "si limita a sentire senza capire".17 Si cerca la rassicurazione del motivetto familiare, non la sfida del nuovo.Questi tre elementi—standardizzazione, feticismo e regressione—creano un circuito chiuso che si auto-alimenta. L'industria, per massimizzare il profitto, produce musica standardizzata.10 Questa musica "addestra" l'ascoltatore alla regressione, rendendolo incapace di desiderare altro che il familiare.16 A questo punto, l'industria usa la "domanda" di questo pubblico regredito come "prova" di mercato che solo i prodotti standardizzati funzionano, giustificando così l'esclusione di qualsiasi "espressione intellettiva" autentica e rischiosa. L'industria culturale non si limita a soddisfare la domanda; la crea e la plasma a sua immagine, rendendo l'arte complessa commercialmente inviabile e apparentemente "indesiderata".
Se l'analisi di Adorno sembrava iperbolica nell'era della radio e dei dischi in vinile, l'avvento del capitalismo delle piattaforme digitali—incarnato da Spotify, Apple Music e TikTok—l'ha resa una descrizione letterale della realtà. Gli algoritmi non hanno liberato la musica; hanno perfezionato la fabbrica dell'industria culturale, rendendola più efficiente, invisibile e totalizzante.
In primo luogo, il modello economico dello streaming istituzionalizza la svalutazione dell'opera singola. Con piattaforme come Spotify che pagano circa $0,003 - $0,005 per stream, un artista necessita tra 200.000 e 300.000 ascolti per guadagnare $1.000.18 Questo modello (sia "freemium" come Spotify 19 sia solo su abbonamento come Apple Music 19) premia intrinsecamente il volume e la ripetizione compulsiva, non la qualità o la complessità dell'ascolto. L'unico "rendimento" che conta è quello quantitativo, misurato in frazioni di centesimo.
In secondo luogo, l'algoritmo stesso è diventato l'agente principale della standardizzazione. L'obiettivo ingegneristico di Spotify è distillare "in forma definitiva il gusto di ciascun utente".21 Questo avviene tramite un "algoritmo predittivo" 22 che analizza i pattern di ascolto per suggerire brani simili.23Questo sistema realizza la profezia di Adorno 10 in un modo che le vecchie major potevano solo sognare. Mentre l'industria culturale di Adorno imponeva la standardizzazione "dall'alto" (top-down) attraverso il controllo della radio e della distribuzione, l'algoritmo la impone "dal basso" (bottom-up), mascherandola da scelta personale e scoperta.Le piattaforme sostengono di favorire la scoperta di nuovi artisti.25 Tuttavia, questa "scoperta" è quasi sempre confinata entro i parametri di gusto pre-definiti dall'IA.23 L'algoritmo crea una "mappa dei gusti" 21 e rinchiude l'utente al suo interno. La standardizzazione 12 non è più vissuta come un'imposizione (la stessa hit su ogni radio), ma come l'esercizio della propria libertà ("la mia playlist personalizzata"). L'utente, nutrito con infinite variazioni del familiare, è scoraggiato dall'esplorazione del radicalmente nuovo. Questa è l'omologazione della coscienza 12 mascherata da iper-personalizzazione.
In terzo luogo, questa logica di mercato algoritmica non si limita a selezionare le hit; detta la forma estetica che le canzoni devono assumere per diventare hit. Con circa 100.000 nuovi brani caricati ogni giorno sulle piattaforme 28, gli artisti sono incentivati a comporre musica ottimizzata per l'algoritmo: intro più brevi per evitare lo "skip" (che penalizza la visibilità), hook immediati, strutture conformi per l'inserimento nelle playlist editoriali 30 e "momenti" virali per TikTok.26La ricerca sta persino sviluppando metodi per "tradurre" lo stile di un musicista in una "struttura matematica" o "formula".32 La logica di mercato algoritmica, quindi, non si limita a valutare l'arte; la produce attivamente, trasformando la "speculazione intellettiva" in un esercizio di ingegneria inversa finalizzato al "rendimento" algoritmico.
L'evoluzione della mercificazione musicale ha raggiunto il suo stadio finale. La musica non è più solo una merce da vendere ai consumatori (come nell'industria culturale di Adorno) o un servizio per cui vendere abbonamenti (come nel capitalismo delle piattaforme). È diventata un puro asset finanziario, realizzando la "speculazione" (finanziaria) come suo unico e ultimo fine.La finanza si è "presa anche la musica".2 Cataloghi e diritti sono diventati asset da cui "ricavare profitti", attraendo investitori perché rappresentano una "fonte di reddito passivo" con "bassa correlazione con i mercati finanziari tradizionali".3 Questo processo, iniziato simbolicamente con i "Bowie Bonds" nel 1997 36, è esploso in un mercato multimiliardario. Le superstar come Taylor Swift non sono più solo musicisti; sono analizzate come "media company integrate" con un "cash flow multiprodotto" (biglietti, diritti, licensing) il cui tour può "muovere il Pil locale".37
L'emblema di questa finanziarizzazione è il Hipgnosis Songs Fund.4 Fondato da Merck Mercuriadis, il fondo ha speso miliardi per acquisire i cataloghi di artisti leggendari, da Neil Young e Shakira ai Fleetwood Mac.39 Il modello di business è esplicito: trattare i diritti musicali (sia editoriali che di master 40) come una proprietà intellettuale (IP) che genera flussi di cassa prevedibili, simili a quelli delle infrastrutture o delle materie prime.4In questo modello, l'opera è definitivamente separata dal suo creatore e dal suo contesto culturale. Diventa un puro oggetto di speculazione finanziaria.La recente crisi di Hipgnosis è ancora più rivelatrice. Gli azionisti della società quotata a Londra hanno votato la "sfiducia" 41 e si sono ribellati.42 La ragione non era una preoccupazione per la gestione culturale dei cataloghi, ma puramente finanziaria: il "valore patrimoniale netto" (NAV) per azione era calato del 9,2% e i dividendi promessi non erano stati pagati.42 Il dibattito tra gli azionisti non verteva sull'arte, ma sulla necessità di "ricostruzione, riorganizzazione o liquidazione" per "migliorare il prezzo delle azioni".41La finanziarizzazione rappresenta l'apice della logica di mercato e la morte definitiva dell'"aspetto speculativo" (intellettuale) dell'arte. L'industria culturale di Adorno e il capitalismo delle piattaforme dovevano ancora gestire il rischio di produrre nuova musica. La finanziarizzazione risolve questo problema nel modo più efficiente: smettendo di investire nel nuovo e investendo solo nel passato già provato. Un fondo come Hipgnosis non scommette su un nuovo artista; acquista il catalogo di Neil Young 39 perché il suo "rendimento" è statisticamente prevedibile. Questa è la logica del "rendimento" portata alla sua conclusione: un sistema che si nutre solo di ciò che è già culturalmente canonizzato, rendendo la creazione di nuova "espressione intellettiva" un rischio che nessun investitore razionale vuole più correre.
L'architettura della mercificazione musicale, dalla standardizzazione algoritmica alla finanziarizzazione dei cataloghi, non è un sistema astratto. Esso poggia e si alimenta sull'ecologia umana dei creatori, imponendo costi psicologici ed economici devastanti. Il termine "rendimento", richiesto dal mercato, si scontra brutalmente con la salute mentale e la sostenibilità economica necessarie per il "rendimento" (la prestazione) artistico.43
La "libertà creativa" nell'era di mercato ha un "prezzo elevato in termini di precarietà del reddito e aleatorietà dei risultati".44 L'artista indipendente (che è la stragrande maggioranza dei creatori) opera in un contesto di "elevato grado di precarietà e instabilità".45 Studi recenti, come quello condotto a New York da Creatives Rebuild New York, hanno rivelato una realtà sconcertante: più della metà degli artisti guadagna meno di 25.000 dollari all'anno, con barriere economiche e instabilità finanziaria come pesi principali.47Questa precarietà non è un effetto collaterale del sistema; è una sua caratteristica funzionale. L'incertezza finanziaria costante 48 è la principale fonte di stress e ansia per i musicisti.
Questa precarietà genera un'immensa pressione psicologica. L'industria musicale appare come un luogo di creatività, ma dietro le quinte è un "ambiente di alta pressione".48 Le ricerche indicano che artisti e performer hanno probabilità significativamente più elevate di sperimentare problemi di salute mentale.50L'ansia da prestazione (Musica Performance Anxiety, MPA) 51 non è più solo la paura del palcoscenico, ma una condizione cronica legata alla "performance" di mercato. Come notato da Moises.ai, il burnout e la depressione derivano dalla "combinazione di incertezza finanziaria costante, osservazione pubblica e la pressione di performare ad alto livello".48 Gli artisti sono intrappolati in una tensione costante tra l'integrità creativa e la necessità di "rimanere rilevante".48Il sistema di mercato, quindi, non si limita a mercificare l'opera (il prodotto finale); mercifica l'artista stesso (il produttore). Per sopravvivere, l'artista indipendente non può semplicemente creare "espressione intellettiva". Deve gestire la propria promozione sui social media 46, "costruire una comunità" 54 e "performare" costantemente la propria autenticità per attirare l'attenzione degli algoritmi (Sez. IV) o dei finanziatori. Il burnout 48 non deriva solo dal lavoro creativo, ma da questo lavoro emotivo e promozionale accessorio, richiesto dalla logica di mercato per ottenere "rendimento".
Di fronte a questo sistema, sono emersi numerosi modelli alternativi che promettono di "liberare" l'artista e restituirgli il controllo. Tuttavia, un'analisi critica rivela che la maggior parte di queste alternative non sfida la logica di mercato, ma cerca semplicemente di renderla più "democratica" o efficiente, fallendo così nel risolvere la contraddizione fondamentale.
Storicamente, l'arte "speculativa" è quasi sempre esistita al di fuori del mercato di massa. Il mecenatismo rinascimentale (come quello dei Medici o degli Este 55) e quello industriale (come quello di Andrew Carnegie 56) hanno finanziato grandi opere, sebbene fossero soggette ai gusti e alle agende dei mecenati. L'alternativa moderna è il sostegno statale e pubblico. Attraverso fondi come il Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV) in Italia 57 o finanziamenti PNRR per conservatori e accademie 59, lo Stato crea spazi protetti (come la lirica o la musica classica 61) dove la logica del profitto è sospesa o attenuata. Questi rimangono gli unici modelli veramente non-market, ma sono per definizione limitati e soggetti a logiche politiche.
Le etichette indipendenti sono spesso romanticizzate come il "cuore pulsante" della sperimentazione 62 e un "trampolino di lancio" per generi di nicchia.63 Offrono maggiore libertà creativa e contratti più flessibili rispetto alle major, che sono concentrate sul fatturato.63 Tuttavia, l'analisi del settore rivela una "simbiosi" 65 dove le indie agiscono, di fatto, come il dipartimento di Ricerca & Sviluppo (R&D) a basso costo per le major. Le indie si assumono il rischio creativo e finanziario iniziale 66; se un artista ha successo (come nei casi di Ultimo o Achille Lauro in Italia 67), viene rapidamente assorbito dalle major.65 Le indie non sono un'alternativa al mercato, ma un segmento più flessibile e precario del mercato.
Piattaforme come Patreon 68 o Kickstarter 69 sembrano creare la connessione ideale: eliminare gli intermediari e collegare direttamente l'artista al suo pubblico. Tuttavia, come notano le critiche, questo modello sposta semplicemente l'onere del marketing sull'artista.54 L'artista si trova a "competere con altri creator" per l'attenzione e deve dedicare enormi risorse non alla creazione artistica, ma alla gestione della community e alla "performance" del proprio brand personale per giustificare il supporto continuo.
L'alternativa più recente, il Web3 e i Music NFT (Non-Fungible Tokens), è stata presentata come la rivoluzione definitiva per ridare il controllo e la monetizzazione diretta agli artisti.70 Artisti come 3LAU o Grimes hanno guadagnato milioni in minuti.70 Tuttavia, questa utopia tecnologica è implosa quasi immediatamente, rivelandosi non un'alternativa alla speculazione finanziaria, ma la sua forma più pura e distillata.Il mercato degli NFT si è rapidamente trasformato in una "bolla speculativa" 72, guidata da logiche finanziarie totalmente avulse da qualsiasi valore estetico. Invece di liberare l'arte dal mercato, l'ha resa sinonimo di speculazione finanziaria, aggiungendo peraltro enormi preoccupazioni etiche, di privacy 77 e di impatto ambientale a causa dell'elevato consumo energetico della tecnologia blockchain.78Il fallimento di queste alternative risiede nel fatto che accettano tutte la premessa fondamentale del mercato: che l'arte debba comunque avere un "rendimento" economico e che il suo valore sia esprimibile da un prezzo. La "democratizzazione" dell'arte 80, quando avviene all'interno di questa logica, si rivela essere solo un'accelerazione della frenesia speculativa e una produzione "su scala industriale" che sacrifica "qualità" e "originalità".82 Queste soluzioni non sfidano il feticismo della merce 14; lo amplificano.
L'analisi critica dei meccanismi di mercato applicati alla musica conferma la tesi di partenza: l'arte, per servire l'"espressione intellettiva", deve essere protetta dalla logica del "rendimento". Le due accezioni del termine "speculativo" sono intrinsecamente antagoniste.La logica di mercato non è un neutrale meccanismo di distribuzione. È un sistema ideologico che, per sua natura, agisce per:
Le presunte "alternative" di mercato, dalla "democratizzazione" via social media 82 alle utopie tecnologiche del Web3 70, si sono rivelate trappole che non fanno altro che accelerare questa logica.74La liberazione della musica dalla logica di mercato non è una questione di trovare un "business model" migliore.83 È una questione politica, etica e collettiva. L'espressione intellettiva non finalizzata al rendimento richiede la creazione deliberata di "spazi protetti" che resistano alla "globalizzazione uniformante del capitalismo".85Questo implica un rafforzamento dei sistemi di sostegno pubblico (come i fondi statali 57) e la creazione di nuovi modelli di mutualismo e sostegno collettivo 45 che rifiutino la premessa del profitto. Solo sottraendo l'arte allo specchio deformante della speculazione finanziaria, possiamo sperare di preservare la sua funzione essenziale: quella "speculazione intellettuale" 1 che, sola, permette all'essere umano di emanciparsi 8 e di percepire la bellezza "senza la rappresentazione d'uno scopo".7